Maestro della Croce astile di Todi
Cristo Crocifisso e dolenti
Tempera e argento su tavola cm (h)33 x (l)24,5 x (p)2,5 1330-1335 ca.
Provenienza: collezione privata
La piccola croce sagomata si presenta in buono stato di conservazione dopo il recente restauro che ha ripulito la superficie e ha ovviato alle ridipinture che nel tempo erano state sovrammesse alla pellicola originale.
La ritrovata leggibilità del dipinto ha permesso uno studio più approfondito e la possibilità di trovare le sue coordinate stilistiche.
La croce a finto legno si infila, in basso, nelle rocce e in alto, una tabella rossa reca la tradizionale scritta INRI, vergata in bianco. Sull’oculo sommitale, tondo, si trova un uccello in volo, evidentemente è il pellicano, simbolo della Passione e della Resurrezione di Cristo, che di consueto compare nelle Crocifissioni. I potenziamenti laterali terminano in grandi tabelle entro cui si vedono i do- lenti a mezzo busto, a sinistra la Vergine e a destra Giovanni Evangelista. Molto interessante è la posizione di quest’ultimo che è girato verso l’esterno del dipinto. Questa particolarità che sembra essere una rarità nella pittura del Trecento, come andremo qui di seguito a spiegare, ha, tuttavia, molti esempi illustri. La nostra Croce appartiene ad una corrente culturale umbra molto diffusa che fa dell’espressività e della carica emotiva il suo tratto più peculiare e quindi la posizione del dolente non è eterodossa in senso assoluto perché è come se Giovanni distogliesse lo sguardo dalla scena della morte di Cristo. Si gira per non guardare, alla stessa stregua dei tanti esempi in cui l’apostolo si copre il viso ed esiste un precedente molto illustre, la Crocifissione di Giotto per gli Scrovegni in cui Giovanni dà le spalle alla Croce per soccorrere Maria che è colta nel momento dello svenimento.
Ci sono anche altri casi con il Santo che distoglie lo sguardo dal corpo morto di Cristo, come fa Mariotto di Nardo nella Crocifissione già Kress Collection e ora nel Mead Art Museum, ad Amherst, in Massachusetts oppure un anonimo pittore aretino in uno strano paliotto nel Museo di Arte Medievale e Moderna di Arezzo, fino ad Allegretto Nuzi, nel trittico di Berna, o Puccio di Simone, suo sodale, nel bel trittico di Avignone, nel Musée du Petiti Palais. In un altarolo portatile fiorentino di un pittore vicino a Bernardo Daddi, anche questo della Kress Collection e ora ad Allentown nel locale Art Museum, si vede proprio come il giovane apostolo, troppo triste per resistere, si gira dall’altra parte alla vista della morte di Cristo, ma gli esempi sono davvero moltissim. Il più importante per il nostro caso è quello del Maestro di Cesi che, sia nella Croce di Vallinfante nei pressi di Castelsantangelo sul Nera, sia nel bel dossale verticale della Pinacoteca Vaticana, dipinge lo stesso soggetto.
La carica espressiva del dipinto, con Cristo bianchissimo e livido nell’incarnato, le membra asciutte e le ombre che levigano la muscolatura, inseriscono, come appena detto, questa Croce nella pittura umbra del Trecento, in relazione con la cultura che scaturisce dai primi cantieri della Basilica di Assisi.
Si tratta di un pittore che si deve essere formato all’inizio del XIV secolo, guardando al Maestro di Cesi, uno dei migliori allievi di Giotto. Questo pittore lavora dalla fine del XIII secolo, fino almeno al 1333, quando data gli affreschi della Cappella della Croce di Santa Chiara a Montefalco commissionati da Jean D’Amiel per celebrare la Beata Chiara e palesemente per aiutarne il processo di canonizzazione. Solo tre anni dopo, nel 1336, lo stesso committente si fa dipingere in calce nella tabella centrale di un polittico narrativo che ora è in Pinacoteca Vaticana, ma che in origine era sull’altar maggiore della chiesa di San Francesco a Montefalco. Il passaggio non è documentato, ma verrebbe da pensare che in quegli anni il Maestro di Cesi fosse morto e le commissioni importanti e il favore del rettore del Ducato passassero al Maestro di Fossa, inaugurando anche una nuova fase stilistica e formale della pittura spoletina del Trecento.
La fase finale del Maestro di Cesi, infatti, si configura come paradigmatica di quella “Passione degli Umbri” che era stata teorizzata da Roberto Longhi e che costituiva la parte principale del suo studio sulla pittura umbra del Trecento, così come scaturito dal corso dell’Università di Firenze del 1953-1954. In quell’occasione l’insigne studioso aveva sintetizzato alcune delle più importanti personalità critiche che popolano la cultura figurativa all’inizio del secolo e aveva pensato di dividere il percorso del Maestro di Cesi in due fasi, una denominata proprio con questo nome e un’altra più graffiante ed espressiva, in qualche modo meno aulica e giottesca, che prendeva il nome convenzionale di Primo Maestro della Beata Chiara di Montefalco.
Già Andrea De Marchi, in più occasioni, aveva pensato di unire i due artisti in un’unica serie, che va appunto dal 1295 circa fino al 1333. Mi pare di aver dato un contributo importante a questo problema cercando di indicare quali siano le opere ponte che uniscono le due figure e credo finalmente che si possa ben dire che il Maestro di Cesi parta come forte giottesco per poi pian piano ammorbidirsi verso una pittura senz’altro meno vigorosa, ma certamente più attenta ai moti interiori dei personaggi e alla loro attitudine espressiva che spesso diventa il vero significante dell’immagine. È un percorso che questi condivide pure con Palmerino di Guido, l’identificazione più plausibile del Maestro Espressionista di Santa Chiara, col Maestro di san Ponziano, altro spoletino e pure, in maniera meno vistosa, col Maestro della Croce di Trevi, che in effetti è il più alto della prima generazione dei pittori umbri a sud di Perugia.
La nostra piccola tavola sagomata si sposa perfettamente con questo mondo, come si vede confrontando ad esempio il viso di questo Cristo con quello tutto triste e sconvolto di Gesù nella grande Croce su tavola di San Domenico a Spoleto. Al di là delle esagerate differenze di dimensioni, si vedono simili alcuni dettagli, come l’incarnato chiarissimo e reso con una base verde, i ca
pelli come fossero un casco che racchiude il cranio, quell’espressività tragica; caratteri che si ritrovano puntuali tra le due opere. Certo non è lo stesso pit- tore, perché il Maestro di Cesi non dipingerebbe i dolenti in questo modo e pure il perizoma di Cristo è più complicato e gonfio delle stoffe tirate e azzi- mate dell’altro pittore spoletino, però è chiaro che si tratti della medesima cultura figurativa e dello stesso orizzonte culturale.
L’autore di questa deliziosa Croce astile, allora, deve essere un allievo diretto del capostipite dei pittori giotteschi spoletini ma che guarda anche oltre, an- dando ad intersecare ad esempio il Maestro della Croce di Trevi9.
Anche in questo caso le differenze di dimensioni sono importanti, le sopracciglia tagliate, come inci- se sopra l’occhio allungato e i capelli divisi in ciocche chiuse e compatte, che poi cadono sulle spalle, si vedono puntuali, ad esempio, nella Croce eponima, ma anche nella stupenda Crocifissione del Dittico Cini di quel maestro, che presenta anche il corpo con l’incarnato solcato da ombre grigiastre, esattamente come la nostra Croce astile. Anche in questo caso non si tratta dello stesso pittore, ma senza meno di un artista a lui vicino, non solo per stile, ma pure per cultura. Il perizoma di Gesù nella nostra piccola Croce astile, come già detto nei confronti del Maestro di Cesi, è sciolto e allungato, un po’ diverso rispetto alle stoffe tirate, spesso bianche e dorate, dei pit- tori spoletini. È un dettaglio che si trova in modelli un po’ più antichi rispetto a questo dipinto, e che si possono datare alla fine del Duecento. In particolare il confronto più stringente si può proporre con la bella Croce del Maestro della Croce di Gubbio, un pittore della primissima generazione giottesca attivo a Perugia, se sono suoi come penso alcuni degli affreschi della Sala dei Notari e, appunto, a Gubbio. Nella sua opera eponima, Gesù indossa un perizoma rosso attorcigliato in stupende pieghe gotiche che dimostrano l’attenzione verso Duccio, il cui ricordo sarà arrivato in qualche modo ad Assisi. A Spoleto, proprio in parallelo col Maestro della Croce di Gubbio, è il Maestro di Sant’Alò, che condivide la stessa cultura e che, anche lui, dipinge un Cristo in Croce col perizoma rosso e con un’eleganza che si potreb- be effettivamente chiamare duccesca.
Anche il nostro ha lo stesso dettaglio, ma evidentemente è un ricordo più lontano nel tempo. La Croce che qui si discute, infatti, ha i confronti migliori, come detto sopra, con le opere più espressive del Maestro di Cesi e del Maestro della Croce di Trevi, databili più o meno sul cambio tra secondo e terzo decennio del Trecento. Il responsabile della tavola sagomata dovrà seguire di qualche tempo quei modelli e datarsi probabilmente alla fine degli anni venti o nei primi anni del lustro successivo, in pratica proprio accanto agli affreschi di Montefalco che sopra si sono evocati.
Alcuni dettagli spaziali denunciano la stessa situazione cronologica, come lo svolazzo del perizo- ma con all’interno un’ombra grigia e offuscata che ne rende lo spazio e pure le mani che si chiudono attorno al chiodo infilzato al palmo, come aveva fatto, in maniera identica, il possibile Palmerino di Guido nelle Croci di Sant’Andrea a Spello e San Francesco a Montefalco. Accanto a quest’opera si possono porre altri tre dipinti analoghi, chiaramente dello stesso pittore, che condividono non solo il medesimo punto di stile, ma anche dimensioni e tipologia; sono infatti tutte croci astili. Differiscono i supporti, visto che si trovano fondi d’oro, d’argento come in questo caso e uno pure con pergamena applicata, un’altra caratteristica che spesso si trova nella coeva pittura spoletina e che è tradizione che risale fino a Petrus e prima ancora a Sotio. L’opera più interessante del gruppo, che è assai simile alla nostra, è una Croce astile ora di ubicazione ignota ma che fu trafugata dal Duomo di Todi negli anni Settanta del Novecento e che si conosce soltanto per una foto in bianco e nero.
I caratteri espressivi, i dettagli dei volti, la stessa volontà un po’ arcaizzante che si vede in tutte le opere, sono dettagli che le inseriscono in un medesimo gruppo che possiamo chiamare Maestro della Croce astile di Todi, dal luogo di provenienza dell’unica opera di cui si conosca la storia.
Tutti i dettagli che ho potuto descrivere per giustificare la datazione e la collocazione stilistica di questo dipinto, si riflettono in tanti pittori spoletini di quel momento. Oltre alle personalità conosciute, di cui purtroppo mancano riferimenti storici a nomi effettivamente riconoscibili, per il naufragio di praticamente tutti gli archivi antichi di quel territorio, esistono altri pittori che hanno cataloghi meno cospicui, per i quali il lavoro di sintesi e di studio è appena cominciato.
La sensazione, allora, è che anche il nostro pittore, il Maestro della Croce astile di Todi, possa avere lo stesso destino e andare a colmare il vuoto cronologico di una personalità conosciuta fino ad oggi per opere più antiche. Chissà che non sia il caso del Maestro della Croce di Caso, un artista nobile ma rarissimo, responsabile di un grande Crocifisso assai malmesso ma bellissimo, del Museo Diocesano di Spoleto e di un dossale narrativo, già in collezione Spiridon e ora in Galleria Nazionale dell’Umbria, ma depositato al Museo della Rocca Albornoz sempre a Spoleto.
Questo pittore è uno di quelli che verrebbe da definire di mezza terra, nato alla fine del Duecento e con negli occhi più Cimabue che Giotto, ma pronto ad una svolta moderna sia sul piano iconografico sia su quello stilistico. I capelli del Cristo a Spoleto, che serpenteggiano compatti verso le spalle, sono gli stessi di quelli di Gesù in questa piccola Croce; le sopracciglia tagliate, che mi hanno fatto anche pensare al Maestro della Croce di Trevi, potrebbero ben diventare come quelle più lunghe della nostra tavola e pure il perizoma gonfio non è troppo distante dai panni dei dolenti nell’opera maggiore che qui si descrive. È chiaro che si tratti solo di una suggestione che per ora non è possibile dimostrare oltre. Mi sembra possibile pensare ad un’evoluzione in senso più espressivo di un pittore, o di una bottega, che poteva partire molto più indietro, nel momento più alto della pittura spoletina del Trecento.
Alessandro Delpriori